Sabato 30 dicembre 2005 con partenza alle ore 15,00, a Gonnosfanadiga, si terrà la XIX marcia della pace, organizzata dalla diocesi di Ales Terralba.
Il tema scelto quest'anno è: I giovani sardi costruttori di pace.
Nei giorni precedenti si sono svolte alcune iniziative, tra cui una tavola rotonda a Lunamatrona, coordinata da Sergio Concas, alla quale ha partecipato il segretario generale della Cisl di Cagliari, Fabrizio Carta.
Di seguito si riporta la comunicazione svolta.
Intervento di Fabrizio Carta
Lavoro Giovanile
Vorrei citare, molto brevemente alcune statistiche:
Nel 2004, secondo l’ISTAT, il tasso percentuale di disoccupazione giovanile, relativo cioè a persone in cerca di occupazione di età tra 15 e 24 anni rispetto alle forze lavoro della corrispondente classe di età, presenta i seguenti valori:
In campo nazionale la percentuale si attesta al 23,5%, con grandi differenziazioni tra le varie regioni italiane:
Il nord ovest il tasso di disoccupazione giovanile è del 14,1%, nel nord-est è pari al 10,6%, al Centro al 21,4%. L’aggregato centro/nord presenta un valore pari al 15%, contro una percentuale del 37,6% del mezzogiorno.
In Sardegna il tasso di disoccupazione giovanile raggiunge il 35,5%, appena al di sotto della media delle regioni dell’obiettivo 1 (la media è del 38,4%), ma di ben 12 punti percentuali superiore alla media nazionale, per fare un esempio, di 5 volte superiore alla media del Trentino Alto Adige,
Secondo altri dati, sempre ISTAT, stavolta riferiti al 2003, il tasso di occupazione presentava questi valori
Per la classe di età 15/24 anni: Italia 24,9%, Sardegna 18,2%, Cagliari 15,4% (contro Sassari 22,4, Nuoro 21,1, Oristano 16,4). La provincia di Cagliari per questa fascia di età ha un tasso di occupazione più basso rispetto sia alla media regionale e si colloca all’ultimo posto tra le province sarde.
Se andiamo alla fascia 25/29 anni: Italia 62,6, Sardegna 48,4, Cagliari 42,8 (Sassari55,6, Nuoro 49,4, Oristano 53). Anche qui la provincia di Cagliari è all’ultimo posto in Sardegna.
Tassi di occupazione più bassi anche nelle fasce 30/64 anni: e 15/64:
Italia 62,2 (56) Sardegna 54,5 (47), Cagliari53,1( 44,6), Sassari 56,5 (50,4), Nuoro 54,6 (47,8), Oristano 55,4 (47,7).
Ma anche per il tasso di disoccupazione giovanile, la Sardegna e Cagliari in particolare si collocano nella retroguardia
15/24: Italia 27,1 Sardegna 43,6 Cagliari50,9, Sassari 33,2, Nuoro 36,1, Oristano 49,5.
E così via. Ma non voglio annoiare con le cifre. Insomma la disoccupazione esiste, nonostante le statistiche dicano che essa è diminuita, la Sardegna è messa appena un po’ meglio delle regioni meridionali e di quelle dell’obiettivo 1, Cagliari (come vecchia provincia) è l’ultima sia per tasso di disoccupazione che per tasso di occupazione, sia in termini complessivi che in termini di disoccupazione giovanile per le fasce di età 15/24 e 25/29
All’interno di queste fasce è ampia la disoccupazione femminile, sia pure in diminuzione rispetto agli anni passati.
Se guardiamo al Medio Campidano l’osservazione che si può fare, anche se non sempre sono disponibili dati mirati alla nuova provincia è questa:
Vi è un tasso di vecchiaia superiore alla media regionale e su 28 comuni 22 superano la media regionale del rapporto tra anziani e giovani
Quasi tutti comuni perdono popolazione, la disoccupazione in provincia di Cagliari si attesta nel 2004 al 18,1% mentre nel Medio campidano, nel forum della progettazione integrata si è parlato di un tasso del 25% (il dato è però vecchio). Mentre la scolarità è nella media regionale si aper quanto riguarda i laureati che per i diplomati.
Il problema comunque esiste.
Il ruolo del sindacato
Spesso il sindacato è visto come un’organizzazione che cura poco gli interessi dei giovani.
A volte siamo stati accusati di tutelare solo gli anziani o solo determinate fasce di lavoratori stabili.
Tanto più perché viviamo in un periodo nel quale la stabilità del lavoro è in diminuzione e la qualità del lavoro si riduce.
I fenomeni della precarizzazione e dell’insicurezza sul lavoro colpiscono più i giovani anche se, non bisogna dimenticare che la precarietà, soprattutto nel sud e nella nostra isola, colpisce i lavoratori anziani e le generazioni di mezzo, in modo pesante.
Perché è vero che la disoccupazione del giovane è grave, ma quella del cinquantenne è ancora peggio, perché le possibilità di ricollocazione lavorativa sono limitatissime ed è assente uno stato sociale degno di questo nome che assicuri i periodi di inoccupazione.
Un’osservazione che personalmente faccio sempre rispetto al proliferare del lavoro atipico è questa:
Si dice che la precarietà è figlia di alcune leggi sul lavoro che si sono succedute negli ultimi anni, a partire dalla legge 196/97 – il cosiddetto pacchetto Treu –
che introdusse il lavoro interinale, per finire con la legge 30.
Queste leggi hanno introdotto la precarietà nella nostra società?
Può darsi, ma la considerazione da farsi è che le leggi sono sempre figlie dei tempi.
Così come lo Statuto dei lavoratori fu figlio di un modello di società e di un forte movimento dei lavoratori e non solo di essi, allo stesso tempo queste leggi sono figlie di un nuovo modello di società basato sul consumismo, sull’individualismo.
Ma allora la mia considerazione è questa: forse non sono le leggi a creare la precarietà. E’ il contrario: è la precarietà che nasce dal modello di società, nella quale viviamo e alla quale contribuiamo con i nostri comportamenti. Da essa nascono quelle leggi, contestate in alcune parti.
Qualche mese, insieme alla FISASCAT, abbiamo scritto una lettera al vescovo per sensibilizzarlo sulle eccessive aperture domenicali dei supermercati. L’abbiamo fatto non tanto per devozione religiosa, quanto per sollevare un problema che alla Chiesa è caro.
Il modello liberista e consumistico impone l’apertura dei supermercati in tutte le domeniche e noi li affolliamo felici e contenti: è evidente che poi nasceranno i contratti week end o altre forme di lavoro a chiamata. E’ la struttura produttiva, basata su questo modello, che li impone.
Noi dobbiamo andare controcorrente, dobbiamo pretendere una società a misura d’uomo e non l’uomo a misura di una società imposta dalle regole del consumo. Dobbiamo batterci per imporre nuovi modelli culturali, nuovi stili di vita.
Noi non possiamo accettare una flessibilità ad ogni costo, senza regole. Noi vogliamo contrattare la flessibilità, sempre che sia necessaria, ma soprattutto vogliamo costruire un modello sociale che, a fronte di queste mutate condizioni, accompagni il lavoratore nei momenti del lavoro, in quelli della formazione, in quelli della involontaria disoccupazione.
Noi siamo perché si crei una rete di protezione sociale. Siamo per uno statuto dei nuovi lavori. Siamo perché vi sia un sistema di ammortizzatori sociali seri, basato sull’intervento dello Stato e degli Enti previdenziali, ma anche sulla bilateralità, sulla scorta di esperienze positive vissute in varie categorie, a partire dall’edilizia, dall’artigianato, e che vanno esportate in altri settori.
Devono essere assicurati moderni servizi per l’impiego, che in Sardegna stentano a decollare, deve essere assicurato un sistema di formazione continua, per assicurare la possibilità di riqualificazione.
Noi pensiamo che il lavoratore vada tutelato dentro il posto di lavoro, ma non si può dimenticare che vi sono milioni di lavoratori ai quali non si applica lo Statuto dei lavoratori e per i quali ci vuole una tutela anche fuori del posto di lavoro.
Ma a parte queste osservazioni, il fenomeno del lavoro ai giovani e di quale tipo di lavoro assicurare ai giovani è fondamentale per una società moderna e, se me lo permettete, per un sindacato moderno.
Cioè il compito delle organizzazioni sindacali e della CISL, delle forze sociali in genere, della Chiesa, di tutti quelli che operano nel campo del sociale, è quello di saldare gli interessi delle generazioni: non rappresentare solo i “vecchi”, gli anziani, i lavoratori stabilizzati (bancari, statali, anche dipendenti della grande industria), ma anche i giovani, i precari, gli atipici, le fasce deboli della popolazione.
E non solo e non tanto per un discorso organizzativo o di rappresentanza, pur importante perché noi riteniamo decisivo il ruolo di aggregazione svolto dalle forze sociali, quindi anche dai sindacati, ma per altro verso quello svolto dalle associazioni e dai partiti.
Quindi, unificare, far capire agli anziani che è compito nostro quello di restituire ai giovani un mondo più vivibile, rispettoso dell’ambiente e quindi cercare di assicurare loro un lavoro più sicuro.
Si dice che mentre un sessantenne di oggi, in genere ha lavorato per 35 40 anni nella stessa azienda, il giovane che si affaccia al lavoro solo dopo i 25 anni, quando va bene, cambierà lavoro circa sette volte nell’arco della sua vita.
Qualche anno fa, alcuni ricercatori avevano parlato del popolo del 10%: di quei lavoratori atipici, per lo più donne e giovani, che erano quasi contenti di avere un lavoro precario, di essere autonomi. Certo c’è sicuramente anche questa componente, ma essa esiste solo in minima parte e solo per le fasce più elevate professionalmente.
Persone che preferiscono un lavoro autonomo, gratificante, senza i vincoli del lavoro subordinato.
Ma, almeno personalmente, questo popolo del 10% non l’ho mai conosciuto. I collaboratori coordinati e continuativi, creati dalla legge 335/95, la legge Dini, e poi esplosi come numero negli anni seguenti, anche per un utilizzo distorto, dovuto ad una mera questione di costi, tuttora costituiscono un fenomeno del tutto evidente e clamoroso, per certi versi.
In Sardegna e nella provincia di Cagliari, comprendendovi quelle nuove del Medio Campidano e del Sulcis, assistiamo ad un processo che vede proliferare queste forme di lavoro parasubordinato. Accanto ai centomila disoccupati circa sardi, vi sono almeno altri centomila lavoratori che hanno un lavoro di bassa qualità e di pochissime tutele.
Gli iscritti alle gestioni separate dell’INPS per i lavoratori parasubordinati sono circa 80000, in Sardegna, 40000 nella nostra provincia.
E’ un numero sicuramente da tarare, ma sicuramente molto rilevante.
Non voglio demonizzare l’ istituto della collaborazione di per sé: mi spiego: la collaborazione coordinata e continuativa che esiste ancora, per esempio nel pubblico impiego, o quella a progetto può essere giustificata se prevede realmente una prestazione autonoma, senza vincolo di subordinazione, senza orario etc.
Non può essere giustificata, invece, quando nasconde un lavoro subordinato.
La giustificazione può nascere solo dal diverso tipo di lavoro e non solo, come accade, da un risparmio sul costo del lavoro.
Tra una collaborazione coordinata e continuativa o una collaborazione a progetto e un lavoro subordinato c’è una differenza di costi previdenziali enorme (18% contro il 33%).
E’ chiaro che, finché c’è questo gap, questa differenza, un datore di lavoro è portato ad utilizzare non la forma di contratto che si adatta meglio alla prestazione, ma quella che gli fa risparmiare qualcosa. Una delle proposte che noi facciamo è quindi quella di unificare le aliquote contributive, diminuendo quelle sul lavoro subordinato ed aumentando quelle sul lavoro autonomo o para subordinato.
Vi è un altro aspetto che è quello del futuro previdenziale dei nostri giovani che è di attualità in questi mesi.
Si è parlato molto di previdenza complementare. Questo argomento che potrebbe sembrare secondario, è fondamentale rispetto alla condizione giovanile
Le riforme degli anni novanta (Dini, Prodi) riguardanti la previdenza, che il sindacato ha accettato responsabilmente, avevano un corollario. A fronte dell’introduzione del metodo contributivo per il calcolo della pensione pubblica, che ha portato ad un tasso di sostituzione tra pensione e stipendio, per i giovani, di circa il 50%, occorreva introdurre e rendere operativa la previdenza complementare. Oggi ancora questo non è avvenuto e siamo di fronte ad una riforma a futura memoria.
Noi abbiamo un debito verso i giovani.
Sulla legge 30: gli obiettivi indicati dal libro bianco erano quelli di aumentare il tasso di occupazione e di ridurre la disoccupazione.
La risposta della legge 30 a questo problema è stata solo tecnica e c’è stato un errore.
Come si possono creare nuovi posti di lavoro con un tasso di sviluppo ed un aumento del prodotto interno lordo pari a zero, è una cosa assolutamente inspiegabile.
Inventare in alcuni casi, come ha fatto la legge 30, decine di nuovi modi di fare le assunzioni è quindi un palliativo che può andar bene ai fini statistici ma non risponde e non poteva rispondere alle esigenze di nuova occupazione.
Né la formulazione riguardante l’aspetto dei centri per l’impiego, pur valida in qualche aspetto, poteva fare di più. Tra l’altro in Sardegna, solo da pochi giorni si è arrivati a disciplinare la materia e anche in questo siamo rimasti gli ultimi in Italia.
In più, la riforma del mercato del lavoro, pessima in alcuni casi, è comunque rimasta incompleta, durante questa legislatura. Manca infatti il varo di un sistema di ammortizzatori sociali universale, alimentato dal settore pubblico e dalla bilateralità. Manca un sistema di formazione professionale e di formazione continua indirizzata soprattutto alle fasce deboli, e quindi anche ai giovani.
Mancano i centri per l’impiego che diano veri indirizzi ai giovani.
Se facciamo un’analisi dei tassi di variazione medi annui degli addetti nei principali settori si registra un regresso dell’industria, un aumento nei servizi e nell’informatica nonché nel turismo.
Ma la caratteristica dell’occupazione nel teritorio mi pare quella della piccola e media azienda. (l’82% degli dipendenti opera in aziende con meno di 19 dipendenti (oltre il 70% sotto i 10 dip.), quindi solo il 18% in aziende con più di 20 lavoratori.
Le proposte
Sviluppo integrato: noi non crediamo alle monoculture: si al turismo, al rispetto dell’ambiente, ai servizi immateriali, ma in un ambito che comprenda un valorizzazione del’agroindustria, dell’agricoltura e della difesa dell’industria, E’ necessaria anche una riscoperta delle tradizioni,
Occorre anche rafforzare la qualità del sistema di formazione e di quello scolastico che prepari, realmente, i giovani al lavoro. Dobbiamo sicuramente far aumentare il numero dei laureati, in Sardegna e nel Medio Campidano, ma se si vuole che i laureati rimangano qui o che non siano sottoccupati, dobbiamo creare produzioni di qualità e quindi fare dei piani programmati di formazione che avviino davvero al lavoro.
Altrimenti si rimane nelle enunciazioni teoriche, buone per tutte le stagioni.
Ci sono dei settori che possono avere un’evoluzione anche in termini occupati. Pensiamo ai supermercati che non bastano ma che possono essere occasione di sviluppo anche per l’agricoltura o per l’agroindustria locale, purché si garantiscano i flussi di approvvigionamento richiesti. O anche si può favorire l’allocazione di call center, purché sia difesa la qualità del lavoro e la sua dignità.
Ma il valore aggiunto per lo sviluppo del territorio e quindi per un rilancio anche dell’occupazione giovanile può essere quello di lavorare in rete. Questa nuova provincia deve operare come se fosse un unico comune. In tutti gli ambiti: dal turismo, alla valorizzazione dei beni culturali, dai servizi sociali alla raccolta differenziata, dallo sport ai servizi. D’altronde centomila anime sono un piccolo quartiere di una grande città. Gli esempi non mancano anche nel territorio: vedi l’esperienza di Sa Corona arrubia.
La società, la politica, oggi, non sempre entusiasmano, manca la tensione ideale. Qualcosa di positivo per cui i giovani si possano spendere, perché essendo per loro natura più idealisti degli anziani, hanno bisogno di avere orizzonti, cose nelle quali credere, nelle quali sperare.
I giovani si sposano tardi, rimandano per anni il progetto di un figlio, non riescono a comprarsi una casa, vivono con i genitori, ma non perché sono pigri. culturale dei ragazzi italiani, semmai a uno stallo che avvolge tutto il Paese. Non penso che i nostri giovani in fondo siano diversi da quelli europei. Bisogna ridare loro fiducia. Per questo ci vuole l’impegno di tutti noi.