23/04/2006
Il saluto di Savino Pezzotta all'assemblea delegati Bergamo
Come è noto, Savino Pezzota, segretario generale della CISL, si è dimesso.
Riteniamo importante pubblicare sul nostro sito, l'intervento di saluto di Savino.
E' sicuramente una testimonianza sindacale e umana di grande rilevanza che ci servirà nello svolgere, umilmente, la nostra attività sindacale.


INTERVENTO ASSEMBLEA DEI DELEGATI UST BERGAMO
18 Aprile 2006


Care amiche, cari amici
non ho parole adeguate per ringraziare Gigi, la Segreteria dell’Ust di Bergamo e tutti voi per questo incontro. Colgo l’occasione per ringraziare tutti gli amici, e sono tanti, che tramite lettera, telefonate, la moltitudine di e-mail e messaggini vari hanno voluto testimoniarmi il loro affetto, la vicinanza e, soprattutto, la condivisione dei percorsi che insieme, in questi sei anni circa, abbiamo fatto. Questi gesti semplici e spontanei che ti gratificano e che testimoniano che il tempo e le fatiche non sono state fatte invano, ammorbidiscono tutte le amarezze.

Grazie di cuore.

A questo punto potrei terminare il mio intervento, ma non sarebbe corretto nei vostri confronti.

Come qualcuno ricorderà, ho terminato le conclusioni del Congresso rivolgendomi ai delegati e ai militanti dicendo : “vi voglio bene”. Ed è quello che anche oggi vorrei dire a voi e a tutti gli iscritti, militanti e delegati della Cisl: “vi voglio bene”.

Mi rendo conto che questa non è una frase usuale nel linguaggio sindacale più abituato ad usare termini guerreschi e pesanti come lotta, scontro, battaglia, conflitto; o quelli del mestiere: negoziazione, contrattazione, sciopero; ossia quelli un poco più burocratici che si riferiscono alla vita interna: modello organizzativo, strutture, verticale, orizzontale. Sono termini e linguaggi che esprimono gli obiettivi e la dimensione strutturale del sindacalismo. Siamo però scarsi di linguaggio umano ed affettivo, c’è una sorta di pudore nel rendere visibili i sentimenti e così ci aggrovigliamo in un dire specialistico che, molte volte, fa fatica ad arrivare al cuore delle persone. Abbiamo inventato una sorta di neolingua che si chiama sindacalese, il nostro dialetto che serve per parlare tra noi e di noi, ma che rende fredda la comunicazione.

Serve un linguaggio semplice per poter rispondere alla domanda che viene dalle lavoratrici, dai lavoratori, dai pensionati e soprattutto dai giovani: “Come posso abitare il sindacato ?”. E’ una domanda vera che non si limita alla dimensione dell’associare, del mettere insieme e dell’organizzare che restano comunque elementi essenziali dell’essere di un sindacato. Oggi, forse più di ieri, la domanda dell’abitare si è fatta più urgente perché sottintende l’esigenza di sapere “dove stai tu sindacato?”. E’ un interrogativo a cui non vi è una risposta compiuta, ma che ci indica una ricerca. Ogni giorno dobbiamo dire dove stiamo affinché ci si possa trovare. L’esigenza di un linguaggio fatto di parole comuni, quelle che si usano tutti i giorni nei luoghi di lavoro, allo stadio, al bar e, soprattutto, nella quotidianità, diventa importante e necessario.

Ci ripetiamo spesso che siamo soci di un’associazione, ed è importante che ce lo diciamo quando vogliamo sottolineare la forma organizzativa della Cisl. Non credo, però, che questo basti; infatti, si può essere soci senza essere amici e molte volte a noi è capitato di trovarci in questa situazione in cui contano, come nei Consigli di Amministrazione, le maggioranze e le minoranze e si cerca di regolare il tutto su questo schema. In democrazia il rapporto tra maggioranze e minoranze è un criterio essenziale e non ho dubbi che questo debba valere anche per il sindacato, ma sarebbe altresì utile e fecondo se tutto ciò si determinasse su chiare opzioni strategiche e non su altro.

Credo, però, che per un sindacato il puro gioco delle maggioranze e delle minoranze non basti, così come non possono bastare, seppur necessari, gli accordi politici. Occorre che questa dialettica si viva nell’amicizia. Serve un linguaggio che renda comprensibile che il sindacalismo si basa sull’amicizia e che questa è, oltretutto, una dimensione ludica e gioiosa dell’impegno. L’amicizia non ridotta ad una sorta di relazione intimistica o ad una semplice consorteria, ma vissuta nell’impegno per gli altri.

Non c’è impegno per la giustizia, vale a dire una passione profonda e una voglia di solidarietà, se non vogliamo bene a coloro che siamo chiamati a rappresentare. Quel mio “vi voglio bene” detto a chiusura del Congresso aveva questo senso .

Noi sindacalisti molte volte abbiamo l’angoscia dell’impegno, non abbiamo mai tempo e stiamo tutto il giorno in ansia e tesi a come ci rappresentiamo, quando invece siamo, per ruolo, chiamati a rappresentare. L’impegno a rappresentare le lavoratrici, i lavoratori, i pensionati e gli strati sociali più deboli deve essere vissuto in una dimensione ludica, il cui fondamento deve essere costituito dal piacere di farlo. L’impegno sindacale ci è stato insegnato come se fosse un dovere e molte volte anch’io mi sono soffermato su questo aspetto. E’ vero che si tratta di un dovere, come un dovere è l’impegno sociale, civico e politico ma, se mi è consentito, vorrei dire che l’impegno sindacale, che è parte della nostra vita sociale, è anche e soprattutto un gusto, un piacere e una passione.

Guardando la realtà delle cose, quando ci troviamo ad affrontare una vertenza difficile, i licenziamenti, la messa in Cassa Integrazione, la mancanza di lavoro e le grandi incertezze che oggi pesano sui giovani costretti a limitare la loro fame di futuro su lavoretti e lavoricchi, è difficile parlare di gusto. Se guardiamo le condizioni di vita di tante persone – nel senso più profondo del termine, cioè la gente che lavora, fatica, soffre che deve fare acrobazie incredibile per far quadrare i conti dello stipendio, del salario o della pensione di fine mese – forse non riusciamo sempre a dire: “ vi voglio bene” perché si corre il rischio di non essere compresi; tuttavia, se non ci riusciamo è segno che qualche cosa dobbiamo cambiare.

L’abitare il sindacato è questo modo di essere. L’abitare evoca la casa e il sindacato è una casa, ma per un sindacalista questa casa non può mai essere un rifugio bensì un punto di partenza. Dovremmo essere sempre attenti alle cose che facciamo e a come le facciamo, ricordandoci sempre che non siamo né i primi né gli ultimi ma ci troviamo sempre in mezzo: prima di noi, infatti, ci sono stati altri iscritti, militanti e dirigenti che hanno arricchito “la casa” che abitiamo a partire dal loro impegno e noi abbiamo il dovere di lasciarla in eredità in condizioni migliori di come l’abbiamo trovata. Per questo dobbiamo sempre avere una visione ampia, profonda, dei nostri ruoli e delle funzioni che siamo chiamati ad esercitare; una visione profonda capace di vivere senza bramosie e possesso bensì con gratitudine i nostri ruoli. La visione del nostro fare e del nostro impegno si fa più larga e più comprensiva se si ha la consapevolezza che non saremo i primi e neanche gli ultimi.

Nel chiudere il Congresso avevo altresì lanciato la sfida di fare della Cisl la prima organizzazione sindacale. Su questa mia proposta si è fatta dell’ironia. Certo, l’obiettivo è ambizioso, ma se gli obiettivi non sono grandi le nostre azioni restano piccole. Essere primi però non è solo un problema di numeri, ma è anche una questione di qualità nella proposta e soprattutto nei modi di essere.

Per fare questo occorre recuperare il senso profondo dei valori propri del sindacalismo. I valori non sono un qualcosa di astratto che serve ad infarcire i nostri discorsi, sono al contrario un qualcosa di reale che dovrebbe aiutarci anche a definire gli stili di vita. Possiamo (e fino a quando possiamo) parlare di uguaglianza, di solidarietà e di autonomia, se questi termini non orientano la nostra vita, se non diventano parte concreta della nostra quotidianità ?

I valori sono il segno della nostra identità e quindi dovremmo fare ogni sforzo per affermarli nella pratica concreta del fare sindacato. Si è molto parlato in questi anni di identità e credo che se ne continuerà a parlare. Ci sono però diversi modi per affermare l’identità. C’è quello negativo che punta sulla contrapposizione con altre identità per rafforzare la sua, ma questo non va molto lontano. E’ vero che a volte le contrapposizioni con la Cgil hanno rafforzato il tratto identitario della Cisl, ma esso si è soprattutto affermato quando è stato in grado di gestire le divergenze senza mai chiudersi ed isolarsi. Se ti chiudi nel fortino delle tue certezze, delle tue amicizie corri due rischi: il primo, che le tue idee si fossilizzino e pertanto si ripieghino su se stesse; l’altro è che ti cingano d’assedio e ti facciano capitolare.

Non dovremmo pertanto avere paura di perdere l’identità nel confronto con gli altri, poiché al contrario le convergenze la rafforzano. Non dobbiamo mai avere paura di incontrarci, di riconoscere identità differenti, di vedere che abbiamo le stesse passioni e che cerchiamo le stesse cose. In questo contesto, devono emergere i nostri valori per capire quale significato possono avere oggi nelle nostre storie personali e in quella associativa; devono emergere anche come un qualcosa che possiamo offrire a questa nostra società che sembra, in molti casi, aver perso l’orientamento. Vanno sicuramente reinterpretati, riletti, anche per trovare un linguaggio più semplice e più adeguato alle situazioni e ai contesti.

A questo punto si pone la domanda: “cosa posso fare?”. “Quali possibilità abbiamo?”. Bisogna però uscire dal moralismo del “cosa devo fare?” per dirci ogni giorno: “ come posso fare ? e “Con che cosa lo posso fare ?”. Dunque, devo conoscere la realtà per quella che è, coglierne le ingiustizie, le disuguaglianze e cercare le strade per mutarle e cambiare le situazioni in profondità.

Fin qui ho voluto esprimere il mio sentire il sindacato.

In questi giorni ho letto su un giornale che dopo 43 anni avrei lasciato la Cisl. E’ tanto che sono iscritto alla Cisl e non ho mai avuto dubbi su questa mia scelta: la Cisl è stato il mio unico sindacato da sempre.

In questi giorni sto facendo un po’ il bilancio della mia vita sindacale e mi è venuto da ripensare alle ragioni del perché mi sono iscritto. Come sapete ho lavorato alla Reggiani come operaio per quindici anni e credo che la vita di fabbrica mi abbia segnato profondamente.

Il mio primo contatto con il sindacato è avvenuto nel lontano dicembre del 1961. Da qualche mese si era aperta la trattativa per il rinnovo del contratto dei tessili e la federazione nazionale che allora si chiamava Federtessili aveva indetto uno sciopero nazionale per l’1 e il 2 di dicembre dando anche la facoltà ai sindacati provinciali di proclamare altre sedici ore di sciopero, che vennero decise per il sei di dicembre, un mercoledì. La direzione della Reggiani , come ovvio, si oppose allo sciopero e trovò l’intesa con i rappresentanti del sindacato giallo, che si era costituito in azienda, di rinviare lo sciopero alla giornata di Sabato. Noi lavoratori però aderimmo massicciamente allo sciopero e alla manifestazione provinciale sfilando per le vie di Bergamo con tanti cartelli contro l’azienda, la quale rispose con la serrata. Quando si rientrò al lavoro trovammo la sorpresa: tutte le provvidenze aziendali erano abolite. Erano frutto di paternalismo, ma non erano per quei tempi cose da poco. Se avessimo misurato in modo pragmatico e calcolante il risultato della lotta avremmo dovuto dire che avevamo perso più che guadagnato.

Invece, quello che, a prima vista, sembrava uno scacco si rivelò con l’andare del tempo una vittoria, perché eliminò il paternalismo aziendale e consentì di porre le basi per una più forte presenza sindacale, mettendo in mora il sindacato giallo. Si perse sul piano economico ma si guadagnò in dignità. Fu in quella occasione che compresi cosa era il sindacato: la dignità dei lavoratori e delle lavoratrici. Poi mi sono iscritto. Ma il tema della dignità personale e collettiva mi è rimasto nel cuore e mi ha sempre aiutato nell’affrontare le questioni sindacali, anche le più difficili. Tutto si può perdere meno la dignità.

Un sindacato concepito come organismo di rappresentanza deve anzitutto essere impegnato per far rispettare la dignità e i diritti dei lavoratori. Non deve mai dimenticare che il suo compito non consiste solo nel tutelare, ma soprattutto nel promuovere dignità e diritti. Nello svolgimento della funzione di rappresentanza il sindacato è anche chiamato a svolgere una funzione culturale di duplice dimensione: l’una legata al mondo del lavoro e all’organizzazione; l’altra, più esplicitamente, per il bene comune.

Ecco perché non lascerò, com’è stato scritto, la Cisl: farò la domanda di pensione e resterò iscritto.

LE SFIDE PER IL SINDACALISMO

Molteplici sono le sfide che anche oggi si pongono al sindacato, soprattutto ora che siamo dentro una fase di transizione molto profonda dove stanno mutando quasi tutti i vecchi punti di riferimento. Ma ciò che sta cambiando in profondità è l’organizzazione del lavoro, della produzione e dell’economia. Sempre di più si ha la sensazione di essere entrati in un universo il cui fine ultimo è legato alle forme del produrre, del consumare con una finanziarizzazione dell’economia e della vita, che ha elevato il danaro a merce per eccellenza e che punta esclusivamente alla valorizzazione di quanto si possiede. Oggi le scelte politiche tengono conto dei mercati finanziari, delle agenzie di rating, più che delle esigenze delle persone. L’economico, da mezzo, è divenuto fine e lo stesso discorso che facciamo per l'economia si potrebbe estendere alla rivoluzione tecnologica che è in corso. A fronte di questi processi bisognerebbe valutare con estrema attenzione quanto oggi l’economia influenzi e domini il politico e quali effetti possa provocare sulle nostre democrazie. Viviamo in un mondo dove l’interrelazione tra momenti di crisi, di rottura e di ricomposizione s’è fatta sempre più stretta all’interno di una dimensione mobile della globalizzazione, dove il rapporto tra centro e periferia si è talmente intersecato da rendere problematici molti modi di azione del sindacato.

L’insieme di questi fattori fa emergere la necessità di procedere ad una profonda innovazione del nostro bagaglio interpretativo in modo da poter assumere nuove categorie di pensiero ed analisi, per poter riprogettare l’agire e il fare sindacato.

Il sindacato, giustamente, si è sempre considerato una forza sociale e un corpo intermedio e sulla base di questo ha sempre rivendicato la sua autonoma soggettività politica, ma affinchè questa non resti una pura e semplice affermazione di principio deve essere in grado di cogliere il mutamento delle forme sociali.

A volte ho l’impressione che tutti noi e soprattutto noi sindacalisti siamo ancora fermi ad una visione della società centrata sui ceti sociali omogenei, mentre invece occorre avere la consapevolezza che siamo in una fase in cui si è rotto quell'automatismo che, date certe forme di produzione, di organizzazione sociale e di vita, creava automaticamente i soggetti sociali di riferimento.

La situazione in cui abbiamo operato ci ha abituati a ragionare esclusivamente attorno alla dimensione del lavoro (agricolo, industriale e piccoli) e ad interpretare il sociale come un insieme di ceti e classi sociali. Tutto questo sta cambiando e più rapidamente di quello che noi pensiamo. Questi cambiamenti ci costringono a stravolgere il nostro modo di ragionare sulle problematiche legate al lavoro, al sociale, alla famiglia e alle forme dell’aggregazione.

Avrà pure un significato sociale e qualche ricaduta politica il fatto che nella nostra società riescano a convivere con forme di lavoro, povertà, marginalizzazioni che pensavamo scomparse e definitivamente superate, livelli impensabili d’innovazione tecnologica, logistica, finanziaria. Inoltre, occorre tener presente che, il lavoro immateriale, il lavoro diffuso, parcellizzato, atipico e precarizzato sta mettendo oggi in crisi i tradizionali schemi di valorizzazione e promozione del lavoro. A tal proposito mi sembra alquanto stucchevole che ci si divida sulla legge Biagi. E’ una legge che sicuramente va ricalibrata e modificata, ma il vero tema che abbiamo di fronte oggi - e che le ribellioni francesi hanno messo in evidenza - è la valorizzazione del lavoro. Non basta più ragionare secondo i criteri dell’adattabilità dell’offerta alla domanda di lavoro, ma occorre agire sulla qualità dell’offerta al fine di provocare una modifica nella domanda. La vera sfida del mutamento innovativo si giocherà, sempre più, sul sapere e sulla conoscenza.

Se questa è la nuova realtà sociale ci si pone la domanda di come nel prossimo futuro si attrezzerà il sindacato nei confronti del molteplice, segnato dall’individualità, dalla frammentazione sociale, dalla flessibilità dei lavori e dall’indebolimento progressivo delle relazioni sociali. Come facciamo a ricreare il valore dei legami sociali in un ambiente dove tutto è flessibile e dove l'economia va e viene, si delocalizza, s’internazionalizza?
Lo stesso rapporto tra capitale e lavoro sta profondamente mutando. Solo pochi anni fa il conflitto sociale era segnato dalle grandi battaglie sindacali e sociali che creavano in ogni caso identità e legami. Si trattava di un conflitto fortemente basato sulla stanzialità, che segnava le storie del territorio, dava vita a narrazioni identitarie e generava complicità; tutto questo è entrato in movimento. Ora, se i salari a Bergamo sono più alti che altrove, ci si sposta, oppure si va in India e in Cina. Invece dei contratti a vita - per fortuna ce ne sono ancora molti - si punta sui contratti a termine e la precarietà s’insinua non solo nei rapporti di lavoro ma anche nei rapporti di vita.
Altro problema che si proporrà in tempi brevi è il declino demografico. Una società in cui la popolazione invecchia e il tasso di natalità si mantiene basso non ha lo slancio vitale per innovarsi profondamente, anzi tende a conservare e questo ha ricadute economiche e sociali rilevanti per il futuro. Avremo comunque bisogno, per mantenere gli standard di benessere attuali, di maggior immigrazione il che comporterà ulteriori cambiamenti. Infatti, è chiaro, né possiamo sottovalutare quanto il fenomeno dell’immigrazione incida sul piano sociale, economico, religioso e culturale, che una società che si fa sempre più multiculturale, multietnica e plurireligiosa pone problemi nuovi, inediti per tutti noi. La realtà dei fatti e dei fenomeni ci dice che non siamo più e solo in una fase di transizione, ma che stiamo subendo una profonda metamorfosi.
Se così è, diventa chiaro quanto il sindacalismo abbia bisogno di ridefinirsi e di generare un nuovo progetto culturale in grado di interpretare la realtà e di costruire un progetto capace, all’interno di questa nuova complessità, di generare i tratti di una nuova coscienza sociale, di nuove relazioni sociali, di solidarietà, di luogo e d’uguaglianza .
In questo contesto di trasformazione il Sindacalismo deve tornare ad essere centrale.
Al Congresso abbiamo elaborato una strategia che dava delle indicazioni precise e abbiamo più volte posto il tema dell’esistenza nel nostro Paese di una “Questione Sindacale”. Per risolvere le questioni che stanno dentro il sindacalismo e le sue prospettive non serve avere “governi amici”; sono infatti convinto che con i governi, soprattutto in tempi di difficoltà, di mutamento e di transizione, come quelli che stiamo attraversando, servano dei patti chiari dove le responsabilità e le autonomie siano sempre molto nette. Nel Documento Finale del Congresso avevamo proposto una politica di concertazione basata su un “patto di legislatura” per la crescita, l’innovazione, il mezzogiorno e la politica dei redditi. Credo che quella resti ancora una prospettiva credibile e praticabile.
Avevamo tutti sperato che con queste elezioni politiche il nostro Paese sarebbe entrato in modo compiuto nella prospettiva dell’alternanza e della governabilità. I risultati ci mostrano invece un Paese che fa fatica ad avviarsi verso una democrazia compiuta. La campagna elettorale non ha contribuito a delineare i tratti di un Paese che non ha timore dell’alternanza e che vive come normalità fisiologica la contesa elettorale.

Resta però aperto un problema politico che riguarda questo bipolarismo che non riesce ad essere centripeto e, pertanto, a generare alternanza chiara e governabilità.

Il governo ci sarà e speriamo che sia in grado di determinare un vero percorso di governabilità evitando di muoversi con la circospezione dovuta agli equilibri. Il nostro Paese ha oggi bisogno di essere governato in modo deciso, forte e responsabile. E’ difficile, ce ne rendiamo conto, affrontare le questioni del nostro sterminato debito pubblico, affrontare i temi della crescita e lanciarsi sul terreno dell’innovazione e della modernizzazione, ma questa è l’esigenza. Non si può perdere l’occasione e non cogliere i segnali di ripresa economica che stanno qua e là emergendo per ridisegnare un coerente modello di sviluppo e un nuovo welfare,capace di rompere con le corporazioni, gli interessi consolidati e togliere di mezzo ingessature e incrostazioni.

Non mi addentro sulla questione se serva o meno una grande coalizione alla tedesca – confesso che seppur aggettivata a me il termine coalizione non piace molto -, quello che occorre è un Governo che assuma l’impegno di affrontare i due o tre nodi di fondo (crescita, mezzogiorno, innovazione, welfare, ecc.) su cui generare una tregua bipartisan. E’ tempo che gli interessi del Paese facciano premio su tutto ed è su questi che ci si deve concentrare con forza e rigore.

Questa prospettiva chiama in causa gli schieramenti politici ma sollecita anche le rappresentanze che devono agire con una forte autonomia. Oggi più che mai serve un sindacato autonomo, tenendo presente che l’autonomia è qualcosa in più dell’indipendenza. Etimologicamente il termine autonomia è composta da due parole greche che significano fare da sé le proprie regole. E la Cisl proposte strategiche da mettere in campo ne ha e lo abbiamo dimostrato in maniera compiuta nel quinquennio appena trascorso. Abbiamo fatto accordi con il Governo presieduto da Berlusconi, abbiamo litigato con la Cgil, ci siamo accompagnati con la Uil e confrontati con la Confindustria e le rappresentanze datoriali e abbiamo sempre mantenuto la nostra rotta, le nostre idee e i nostri obiettivi. Oggi la Cisl è autorevole e rispettata, anche da chi era stato prodigo di critiche e di fischi. La nostra coerenza e linearità di comportamenti ha pagato e fatto aumentare gli iscritti.

Veniamo ora al tema di quest’incontro: le mie dimissioni da Segretario Generale.

Sarò molto sincero.

Lo sarei stato molto di più se in sala non ci fossero stati i giornalisti, ma oggi non possiamo fare a meno di loro. Anzi colgo l’occasione per ringraziarli dell’attenzione che in questi anni hanno avuto nei miei confronti. A volte ci lamentiamo nei loro confronti anche perché vorremmo che scrivessero o facessero vedere quello che piace a noi, ma sbagliamo a pensarla così. Il loro dovere è dire con onestà quello che vedono e pensano delle nostre azioni, non possiamo pretendere un’oggettività che non può esistere.

Per tornare alle mie dimissioni. Siamo andati al Congresso dello scorso anno sulla base di un’intesa unitaria - non perché in questi anni non ci fossero state tensioni e ansie all’interno del gruppo dirigente confederale -, ma si è tutti ritenuto utile per la Cisl non creare divisioni e tensioni.

Dopo il Congresso, nel quale c’è stato un grande consenso sulla mia persona e sulle linee strategiche, nel primo Consiglio Generale sono riemersi tutti i nervosismi che sembravano assopiti. Le tensioni hanno raggiunto - anche con eccessi - il loro culmine nelle riunioni del Comitato Esecutivo. Mi sono trovato nella condizione di decidere se andare verso una rottura dell’organizzazione oppure gestire tutte queste fibrillazioni.

Al Congresso avevo annunciato che non avrei portato a termine il mio mandato e che all’Assemblea Organizzativa, che si dovrebbe tenere l’anno prossimo in estate, avrei lasciato l’incarico. La mia decisione di accelerare i tempi l’avevo, in cuor mio, presa dopo il Comitato Esecutivo dell’ottobre 2005. Certe espressioni mi avevano profondamente ferito.

Se vi ricordate il 24 0ttobre 2005, pochi giorni dopo quell’Esecutivo Confederale, si tenne qui in Seminario a Bergamo una Assemblea dei Delegati, il tema era “Dalle ansie alle speranze” , nelle conclusioni, fuori tema, vi spedii delle cartoline ideali. Era il segnale che avevo avviato un percorso di uscita.

A seguito di queste mie decisioni interiori aprii una consultazione tra i dirigenti a seguito della quale indicai una soluzione, che è quella che conoscete.

Confesso che mi sarebbe molto piaciuto restare fino all’Assemblea Organizzativa per poter avere l’occasione di salutare tanti amici e delegati.

Ma, ad un certo punto, s’è inserita la vicenda delle elezioni, dell’offerta a candidarmi alle elezioni politiche, in un collegio senatoriale, sicuro, in Lombardia. Su questa vicenda voglio spendere due parole di chiarezza.

Non è la prima volta che mi sottraggo al candidarmi. Le altre volte le motivazioni erano diverse. Questa volta il mio rifiuto ha ragioni ben precise. Non è, come ha detto qualche stupido, una sorta di mia avversione alla politica, non è così. Non ho mai creduto che la politica sia una cosa sporca, anzi, come gli antichi, la ritengo la cosa più nobile che un cittadino possa fare. Mi piace tanto la politica che a 14 anni mi sono iscritto alla Democrazia Cristiana, che nel lontano 1958 feci la mia prima campagna elettorale – ricordo ancora che andavo casa per casa al mio paese ad indicare le preferenze -, ho militato a lungo nel Movimento Giovanile della DC e nel 1972 mi sono – allora si – candidato al Parlamento, senza successo perché allora non vi erano seggi sicuri, per il Movimento Politico dei Lavoratori. Sono rimasto assente dalla politica per molti anni fino a quando ho aderito al Partito Popolare accogliendo l’invito di Mino Martinazzoli: “a coloro che hanno passione civile”. Sono e resto politicamente un cattolico democratico e i miei riferimenti politici restano Sturzo, Donati, De Gasperi , Moro e Dossetti. Per cui attribuirmi una sorta di qualunquismo politico è ingeneroso e stride con la mia storia.

E’ vero che la mia passione politica è stata contenuta e messa in “sonno” per tutto il tempo che ho fatto il dirigente della Cisl nel rispetto dell’autonomia e del pluralismo interno.

Quando mi è stato proposto di candidarmi alle politiche confesso di essere stato lusingato. Ci ho pensato. Non sono stato indifferente. Era, tutto sommato, un’occasione ed una opportunità per uno che ormai dentro di se aveva deciso di lasciare e che aveva 62 anni. Sul piano personale era un’occasione.

Nel non aver accetto sono stato sciocco ? Non credo. A fronte delle insistenze, al crescere di notizie stampa non tutte corrette, mi sono interrogato profondamente e mi sono chiesto a come gli iscritti , i militanti , i delegati , voi avreste giudicato una mia scelta favorevole. Non ho ascoltato quei dirigenti che per amicizia e stima o per interesse, mi consigliavano di andare in quella direzione.

Vedete io, l’ho ricordato prima, ho lavorato quindici anni in fabbrica e conosco per esperienza che cosa significano le rotture tra le organizzazioni. Le rotture sono sempre un fatto doloroso, ma un conto è viverle a livello nazionale da dirigente che si confronta con altri dirigenti, altro è viverle sui luoghi di lavoro: dover litigare con il tuo compagno della Cgil con il quale vivi la stessa condizione, ha fatto lotte, iniziative, preparato piattaforme, negoziato e scontrato con le direzioni e le proprietà, è molto più lacerante perché incide anche sui rapporti di amicizia personale.

E’ pensando a questo – e credetemi non è retorica –, potevo io, che come Segretario Generale avevo guidato l’organizzazione in un duro scontro con la Cgil per il “patto per l’Italia” nel nome dell’autonomia, uscire dal portone di via Po, 21 per infilarmi in quello di Palazzo Madama senza un minimo di percorso di discontinuità?

No! mi sono detto, non lo posso fare.

Non ci sono impedimenti statutari, l’unico obbligo che pone il nostro Statuto è la decadenza immediata all’atto dell’accettazione della candidatura, nulla di più.

Non me la sono sentita di trascinare, perché questo avrebbe praticamente significato la candidatura del Segretario Generale, la Cisl, nella campagna elettorale. E non si è trattato di una contesa elettorale normale, anzi è stata piena di veleni che sarà difficile smaltire.

Sapevo che questa mia decisione avrebbe, per i processi che si erano messi in moto, accelerato i tempi della mia uscita. In coscienza non potevo fare diversamente, anche se mi è costato e ha creato incomprensioni che peseranno anche sul futuro.

In linea di coerenza con questa scelta ho deciso di dare le dimissioni da Segretario Generale a seggi elettorali ancora aperti e quando i risultati non erano ancora conosciuti.

Lascio l’incarico di Segretario Generale consapevole di aver sempre cercato di fare solo il mio dovere. So bene che da domani si andranno a spulciare i miei errori che sicuramente ci sono, ma ho sempre cercato di agire nell’interesse delle lavoratrici, dei lavoratori e dei pensionati, anche quando le mie opinioni non collimavano con quelle di parte del gruppo dirigente.

Nella mia azione di questi quasi sei anni di Segretario Generale ho messo al centro alcuni obiettivi che vi voglio richiamare:

1. Ho puntato a rafforzare l’identità sindacale della Cisl. Nel corso degli anni ‘90, innanzi al crollo dei tradizionali riferimenti politici, abbiamo a lungo discusso di come il sindacato e in particolare la Cisl si dovesse rapportare con il nuovo quadro politico che si era venuto a determinare. Anch’io ho pensato che nella nuova situazione dovessimo contribuire a crearci dei riferimenti politici. I risultati delle elezioni del 2001, il confronto con la Cgil mi hanno convinto che in un sistema bipolare il sindacato debba puntare esclusivamente sulla sua identità sociale, sul valore della sua rappresentanza, sulla contrattazione e che la politica la poteva fare da autonomo soggetto politico attraverso la concertazione;

2. Per questo mi sono attestato con rigore sul concetto dell’autonomia, una autonomia non assunta come indipendenza rispetto alla politica e alle istituzione, ma come capacità di agire un proprio progetto, di rappresentare interessi parziali dentro una visione di bene comune ispirato ai valori della solidarietà e dell’uguaglianza. Una visione dell’autonomia che rifugge ogni antagonismo, ma che si pone sul terreno della partecipazione attraverso il metodo negoziale. La nostra è una autonomia propositiva e non difensiva che intende promuovere parallelamente alla democrazia politica ed economica, la democrazia sociale

3. Da qui lo sforzo per rilanciare un discorso culturale centrato sui valori del sindacalismo democratico, quelli dell’uguaglianza e della solidarietà. Le nostre opzioni strategiche confermate dal Congresso sono nate e cresciute in questa prospettiva. Così come il riferimento ai valori ha sempre orientato il nostro confronto con il Governo e le controparti. Resto convinto, anche a fronte delle debolezze che la nostra democrazia oggi, purtroppo presenta, che essa non potrà rafforzarsi se noi non saremo in grado di introdurre nella nostra azione e nella società forti riferimenti etici. Questo significa che i sindacalisti sono in prima persona chiamati a viverli con coerenza; non servono sindacalisti “furbi”, o troppo “tecnici” o eccessivamente “politici”, o esclusivamente centrati sui problemi interni dell’organizzazione. Servono sindacalisti eticamente orientati e che abbiano un’idea temperata della “furbizia”, delle “tecnicalità”, della “politica”, e dei percorsi organizzativi. Solo così possiamo contribuire a rafforzare lo spirito civico, il senso delle responsabilità, l’attenzione alle virtù repubblicane espresse dalla nostra carta costituzionale, senza le quali la democrazia deperisce.

4. Mi sono molto impegnato a creare nuove relazioni con il sociale organizzato, in particolare con quello d’ispirazione cristiana, nella logica che una democrazia matura che punti verso una democrazia economica e sociale ha bisogno di un sociale che rappresenti bisogni e aspirazione delle persone in modo autonomo;

5. Nel mio fare sono stato attento e richiamato l’attenzione su grandi temi della pace, della non violenza e dei paesi poveri in particolare sull’Africa.

Sono molto contento che sui problemi del continente Africano nella nostra organizzazione sia cresciuta una gran sensibilità e che molti progetti di solidarietà e di cooperazione si stiano sviluppando. Sul tema della pace ci siamo spesi e dovremo continuare a farlo, non dobbiamo mobilitarci solo contro le guerre, ma occorre far crescere una cultura di pace e diventare dei pacifici. Sulla non violenza siamo ancora agli inizi della riflessione eppure sono convinto che questo sia un tema come strettamente connesso della salvaguardia del creato, ineludibile per chi aspira a un futuro più umano. E’ un’utopia, non credo! Penso sia un sogno ad occhi aperti, un “già non ancora “ che dobbiamo assumere. Ragionare da sindacalisti di non violenza significa innanzi tutto porci degli interrogativi sulle forme di lotta democratica che pratichiamo. Non c’è proprio nulla da rivedere? L’aggressività del nostro linguaggio deve rimanere tale? L’obiezione di coscienza può rientrare nel nostro bagaglio di mobilitazione in casi particolari? Sono solo delle domande, ma non possiamo non porcele.

Queste sono le questioni di cui mi sono preoccupato, mentre sono stato un poco disattento alle questioni degli organigrammi interni.

Su due temi non ho realizzato quanto mi ero proposto.

Il primo è quello della “nuova Unità”. Avevo pensato che fosse arrivato il tempo in cui, sulla base delle esperienze maturate, si potessero superare quelle che con pudore definiamo le “sensibilità” e che con maggior concretezza potremmo chiamare le componenti interne. Qui non sono riuscito. Sicuramente si sono fatti alcuni passi, ma alla fine non vi è stata una vera e propria scomposizione e una capacità di rimettersi in discussione. Questo non è un bene, perché questo impedisce un libero ricambio generazionale e una più articolata presenza di genere, fattori di cui anche la nostra organizzazione avrebbe bisogno, mentre invece si continua ad operare per cooptazioni. Spero che chi mi succederà abbia da questo punto di vista maggior successo di quanto non mi sia stato consentito.

Il secondo, ed è quello che diversi amici mi rimproverano, riguarda il modello organizzativo e di non avere prodotto riforme. Non voglio negare le mie responsabilità, ma pongo una domanda: è possibile una riforma del modello organizzativo se non c’è una forte unità interna? Conosciamo tutti le tensioni che ci sono state, soprattutto dall’assemblea organizzativa in avanti, che hanno nei fatti impedito perfino il lavoro della apposita commissione.

Rivendico però il fatto di aver posto in Congresso l’esigenza di un “Nuovo Patto Associativo”. L’esigenza c’è ed è giusto affrontarla, ma se vuole essere profonda occorre sapere che questa riforma o innovazione si può fare solo se i quadri dirigenti dell’organizzazione sono disponibili ad impegnare risorse politiche ed economiche su terreni che possono mettere in discussione gli equilibri di potere interno e ridistribuirlo. Sono anche convinto che nessuna riforma organizzativa sia possibile se non c’è un movimento che nasca dal basso, se non si fanno nuove sperimentazioni nei territori e nelle categorie. Bisogna però tentarci e volerci riuscire.

Care amiche e cari amici,
Pierre Carniti, indimenticato Segretario Generale, nel concludere la sua esperienza citava S. Paolo : “ ho combattuto la buona battaglia, ho mantenuto la fede” . Non voglio ripetere queste parole, ma più semplicemente dire un grazie alla CISL. Sono grato alla mia organizzazione, ho ricevuto molto più di quanto io abbia saputo dare.

Nel mio intimo in questi giorni serpeggia un poco d’amarezza, ma la gioia dell’esperienza compiuta, l’aver avuto la possibilità di incontrare tante persone meravigliose è un dono grande che lenisce tutto.

In molti mi chiedono cosa farò ora, non lo so. Non ho fatto il Segretario Generale per garantirmi un dopo. Continuerò a impegnarmi ed ad interessarmi di sindacato da semplice iscritto, di politica, di sociale e di cooperazione internazionale. Continuerò a dedicarmi alla lettura . Un giornalista ha ironizzato sul fatto che legga poesia, non ha capito molto della poesia. Consiglio anche a voi se volete penetrare nella profondità della realtà di affidarvi alla poesia, vi aiuterà a fare bene il vostro lavoro di sindacalisti.

E per finire vorrei lasciarvi un pensiero di Giulio Pastore , il fondatore della Cisl che in questi anni ho imparato a conoscere attraverso i suoi scritti. Pastore nel suo intervento all’Assemblea Organizzativa di Rimini del 14 -16 Ottobre 1950, rimarcava come esistessero forti pregiudizi sui sindacalisti e che pertanto della necessità di ristabilire il credito per la funzione dell’organizzatore sindacale e nelle conclusione ritorna sul tema :

“ poiché ottenere credito per noi è quanto dare credito e forza al sindacato che è affidato alle nostre cure. Che resta da fare ? Vi è innanzi tutto una questione di indirizzo generale … ma vi è anche un problema , direi , di nostro comportamento personale. E sono sicure che voi siete d’accordo con me nell’auspicare che onestà, rettitudine, laboriosità, disinteresse sono tutte virtù di cui noi dovremmo essere i possesso.
E naturalmente non l’onestà ipocrita, l’onesta alla superficie, non il costume che appare ma il costume che si sente e si vive: poiché , ricordiamoci bene, il mondo è tale che anche quando crediamo di presentarci come persone rispettabili , se nella sostanza non lo siamo o tardi o tosto l’occhi critico penetra e il giorno che è penetrato e ha messo a nudo certe situazioni , in quel momento il discredito supera la nostra persona e va al sindacato.
Rendetevi conto , o amici , che la missione che ci compete andrà a buon fine , nell’interesse dei lavoratori, nella misura in cui sapremo esserne degni.”