Nell’ambito del Programma operativo nazionale “Sicurezza per lo Sviluppo del Mezzogiorno d’Italia 2000-20006, è stato costruito il progetto “una rete istituzionale per contrastare l’illegalità favorendo la crescita della cultura del lavoro regolare”, nell’ambito della misura II.3 “Risorse umane per la diffusione della legalità. Il progetto, presentato a Cagliari il 19 ottobre scorso presso la Prefettura, parte dalla considerazione che il lavoro irregolare è un’emergenza nell’economia del Paese e in particolare nelle regioni del Meridione. Anche la Sardegna è, purtroppo, tra le regioni dove la quota percentuale di lavoratori irregolari sul totale delle unità di lavoro, raggiunge le percentuali più alte. Si va dal 29,2% della Calabria per arrivare (attraverso Campania, Sicilia, Basilicata, Puglia) alla Sardegna con una percentuale del 18,3%.
Il progetto, quindi, considera necessario a un contrasto del lavoro non regolare, che va dal lavoro nero alle mille irregolarità contributive, normative e salariali, non solo la, sia pur necessaria, azione di controllo e repressione, ma anche la partecipazione delle rappresentanze istituzionali, economiche e sociali. Muovendo dunque da una comune consapevolezza del fenomeno e della sua articolazione nell’economia locale, si può attivare un impegno condiviso per rafforzare appunto l’azione di contrasto al fenomeno del lavoro irregolare e stabilire un percorso utile per l’affermazione della cultura della legalità. Solo così si possono stabilire regole per le imprese, danneggiate dalla concorrenza sleale, per i lavoratori che pagano il prezzo delle irregolarità nei loro diritti e nella loro sicurezza, per la società che subisce, tra l’altro, anche una colossale elusione degli obblighi contributivi.
Per discutere di tutto ciò è stato organizzato un modulo formativo, riservato agli operatori, (chi è interessato può ancora isciversi) che si terrà all’Hotel Regina Margherita il 28 e 29 ottobre ed un momento seminariale, previstoper il 30 ottobre. Di seguito il testo dell'intervento del segretario della CISL di Cagliari.
Leggiamo le statistiche sul lavoro sommerso: l’Italia si colloca ai primi posti tra i Paesi industrializzati per il lavoro sommerso. Ma questo dato lo si riscontra soprattutto nelle regioni meridionali. La Sardegna con il 18% la vediamo ai primi posti in Italia, superata solo da altre regioni del Mezzogiorno.
Uno studio relativo all’anno 2003, dell’associazione degli artigiani di Mestre, il cui centro studi sforna statistiche riportate di frequente sulla stampa, vedeva Cagliari tra le città e le province a più alto rischio di lavoro sommerso. Il risultato emergeva dall’incrocio di alcuni indicatori: depositi bancari , indici di disoccupazione, consumi familiari ed elettrici, parco veicolare.
Non so se questi dati sono stati confermati anche nel 2004. Mi sono perso l’aggiornamento, ma credo di poter dire, con ragionevole certezza, che il quadro non è cambiato in maniera significativa.
Usiamo spesso i termini lavoro nero, grigio, sommerso, informale. Quel che mi interessa sottolineare è che dietro questo fenomeno, dietro questi aridi numeri, ci sono, quasi sempre, storie vere di sfruttamento, di evasioni fiscali e contributive, di disapplicazione di contratti collettivi di lavoro, di mancanza di attuazione delle misure di sicurezza e quindi delle leggi sulla sicurezza,(basti pensare a quello che è capitato proprio ieri in un cantiere edile alla nostra periferia.) Insomma, almeno nella nostra regione, storie di ordinaria miseria.
Perché forse al Nord il lavoro nero o sommerso viene svolto da chi già ha un altro lavoro, per arrotondare lo stipendio, ma al Sud, da noi, è spesso una necessità obbligata per chi deve portare il pane a casa, in una Regione e in una città, dove la povertà colpisce tra il 15 e il 20% della popolazione.
Quindi mi sembra importante aver collocato questa iniziativa nella nostra provincia e nella nostra città che non è una metropoli ma ha tuttavia i problemi di un agglomerato urbano metropolitano di circa cinquecentomila persone.
Sicuramente i fattori che determinano il lavoro nero che, da anni, non si riesce a debellare sono svariati. La prima osservazione è che se il fenomeno è così diffuso nel Mezzogiorno, significa che è in primo luogo figlio del sottosviluppo economico di questi territori. Il ridotto PIL rispetto alla media nazionale, un tasso di disoccupazione elevato, la crisi dell’industria che rappresenta percentuali modeste rispetto alla produzione della ricchezza e all’occupazione complessiva, la stessa scarsa efficienza della pubblica amministrazione, non certo per colpa dei lavoratori, sono indicatori che il sommerso va di pari passo con il mancato rilancio dell’economia isolana e del Sud in generale. Il tessuto economico del nostro territorio favorisce il fenomeno, dato che le aziende in percentuale hanno una dimensione minore, rispetto al resto dell’Italia, hanno costi aggiuntivi in quanto non esiste un sistema di messa in comune dei servizi generali, e molte volte non vogliono crescere e non investono in formazione e ricerca.
Ci sono poi sicuramente altre componenti a volte anche personali, sicuramente culturali. Ci possono essere fattori come quello dell’immigrazione clandestina, che nella nostra regione mi sembra però limitata. Qualcuno afferma che esso sia dovuto ad un eccessiva tassazione sul lavoro o all’introduzione di leggi qualche volta punitive nei confronti delle aziende.
Probabilmente ce ne sono tanti altri.
Ma proprio per questo la strategia per combattere il lavoro sommerso non può essere che una strategia articolata.
E’ da anni che, insieme a molti dei presenti, sono stato delegato dalla mia organizzazione a partecipare alle diverse iniziative attuate: dalle commissioni provinciali istituite presso le Camere di Commercio, ai coordinamenti vigilanza presso l’Ufficio provinciale del lavoro, ai CLES, fino alla ricostituzione recente della Commissione provinciale per l’emersione del lavoro non regolare. Posso dire di essere mancato a poche riunioni.
Certo i risultati non sono soddisfacenti e spesso si ha l’impressione che queste iniziative siano fini a se stesse.
E’ probabile che queste iniziative, pur lodevoli, siano state confinate senza essere collegate con il resto del ragionamento relativo allo sviluppo del territorio e ad un efficace sistema di controlli.
Nondimeno ritengo che dobbiamo proseguire su questa strada della partecipazione, dell’integrazione delle forze, del concorso attivo da parte delle forze istituzionali e sociali per debellare il fenomeno. Abbiamo l’obbligo morale e civile di impegnarci su questo versante
Non ci dobbiamo dare per vinti perché il lavoro nero determina fattori negativi che danneggiano l’intera comunità e quindi lo Stato ma anche tutti i cittadini costretti a pagare, senza accorgersene, prezzi sociali elevati.
· Lo Stato perde gettito fiscale e quindi è poi costretto ad aumentare le tasse o, a ridurre lo stato sociale per mancanza di risorse economiche.
· Si minano le basi del sistema previdenziale perché non c’è più l’equilibrio tra lavoratori attivi che contribuiscono e pensionati che percepiscono le pensioni (peraltro piuttosto magre). Qualcuno non a caso sostiene che basterebbe il recupero contributivo sul lavoro nero per rimettere in ordine il sistema previdenziale.
· Si sviluppano forme di lavoro atipico usate in modo scorretto e illegittimo (non solo da datori di lavoro privati, ma anche da enti pubblici retti da giunte di ogni colore), con l’aumento dell’area della precarietà e dello sfruttamento. Per superare questo da anni noi proponiamo un’unificazione delle aliquote contributive che evitino il proliferare delle collaborazioni oggi a progetto o delle associazioni in partecipazioni, surrogati del lavoro sommerso.
· Quasi sempre dove c’è lavoro nero si registrano tassi molto più alti di incidenti anche mortali.
· Si innesca una concorrenza sleale che danneggia le aziende serie e favorisce i pirati.
Bisogna fare crescere la cultura della legalità tra i lavoratori e tra le aziende: sono d’accordo.
Ma certo tutto ciò non è favorito dalla politica portata avanti dal Governo negli ultimi anni. Basti pensare alla facilità con la quale sono stati licenziati provvedimenti di condono fiscale, edilizio e contributivo che sicuramente non aiutano. Se un datore di lavoro può sperare in condoni o, peggio, nell’impunità assoluta, difficilmente utilizzerà gli strumenti che favoriscono l’emersione.
L’esperienza fatta con i CLES, in teoria utili perché in essi erano presenti tutte le forze sociali e istituzionali interessate, lo dimostrano. Se non ricordo male i dati, al CLES, nella provincia di Cagliari, sono state presentate domande di emersione da sole 16 aziende per un totale di 56 lavoratori. Un dato assolutamente insufficiente. Forse è stata colpa del CLES di Cagliari, dei suoi componenti e del suo modo di operare, ma sicuramente c’è qualcosa da rivedere, perché mi sembra che i dati nazionali non si discostino in termini percentuali da questi.
Evidentemente è ancora conveniente nascondersi piuttosto che emergere.
Certo non si può pensare di combattere il fenomeno a colpi di ispezioni da parte delle forze dell’ordine o degli Uffici ispettivi degli Enti previdenziali o del Ministero. Ma tuttavia bisogna renderli più efficienti e dotarli di organico decente e di risorse economiche adeguate. E, soprattutto, bisogna creare un coordinamento reale che eviti sovrapposizioni di interventi e di competenze, creando anche banche dati informatiche consultabili dagli Enti incaricati che aiutano nel servizio ispettivo. E certo il fatto che nella legge 30 si dica che la riforma dei servizi ispettivi deve avvenire a parità di costi, per quante razionalizzazioni anche giuste si vogliano adottare, non rappresenta un fatto positivo.
Allo stesso tempo ritengo che si debbano però rafforzare le commissioni di conciliazione che oggi si trascinano stancamente facendo saltare i tempi previsti (a Cagliari, per una conciliazione si arriva anche a 4 mesi contro i 60 giorni previsti) e che sono diventate più un freno alla tutela del lavoratore piuttosto che un reale ausilio alla composizione della vertenza, che spessissimo attiene a rapporti totalmente o parzialmente irregolari.
La strada che il sindacato indica, almeno la CISL, è quindi quella della concertazione. Cioè, accanto a politiche di sviluppo economico indispensabili, ci vuole anche un proficuo intervento di sensibilizzazione nei confronti della Società, dell’opinione pubblica, ma anche dei propri associati sia da parte delle organizzazioni sindacali, sia da parte delle associazioni degli imprenditori, con il raccordo delle istituzioni (dal Comune alla Provincia alla Regione).
Ma uno strumento c’è già in alcuni settori, e in altri è possibile crearlo ed è quello degli Enti bilaterali. Mi sembra che la legge 30 e il decreto 276, tra alcuni punti negativi, ne hanno anche positivi; per esempio quando intendono valorizzare il ruolo degli enti bilaterali, oggi presenti nel settore dell’edilizia, dell’artigianato, del turismo e dei servizi, ma che possono essere ulteriormente sviluppati. In quel contesto, vanno sviluppate azioni di confronto tra le parti sociali e iniziative tarate sulla lotta al sommerso e mirate rispetto agli associati. Insomma, l’esperienza delle casse edili può essere ripresa e adattata positivamente anche in altri settori e dare risultati interessanti. Specie nel campo della sicurezza sul lavoro.
Basti pensare al documento unico di regolarità contributiva che, nato all’interno del sistema delle casse edili, quindi per accordo tra le parti, è oggi inserito nel decreto 276. L’avviso comune, siglato nel settore dell’edilizia, e che vedeva l’obbligo di presentazione del DURC per l’acquisizione di lavori sia nel pubblico che nel privato, è stato poi positivamente integralmente recepito dalla legge e che, superata la fase sperimentale, può costituire un tassello importante nella lotta al sommerso.
Da qui bisogna riprendere il confronto e rilanciare anche in questo territorio una stagione di concertazione e un patto tra le parti sociali proprio sulla lotta al lavoro irregolare. Ma questo al di là delle occasioni istituzionali alle quali a volte si va di malavoglia. E’ importante il patto per lo sviluppo industriale che stiamo discutendo in CONFINDUSTRIA, ma ad esso va accompagnato un impegno straordinario di tutti per rimuovere gli ostacoli allo sviluppo, per rendere più efficienti i servizi della P.A. e la formazione, per praticare realmente la cultura della legalità .