Seminario su manifesto per il lavoro.
Cagliari 18/3/2008
Intervento di Fabrizio Carta
Nel manifesto della CISL per il lavoro, è contenuta un’affermazione sicuramente condivisibile: la nuova occupazione non può che nascere dall’aumento della ricchezza prodotta e quindi da una crescita quantitativa della produzione e della produttività.
Tuttavia mi pongo due domande.
·Quale tipo di sviluppo e di crescita vogliamo ? sicuramente uno sviluppo non a qualsiasi costo, ma di qualità, rispettoso dei canoni di sicurezza del lavoro e di rispetto dell’ambiente. Dobbiamo saper dire di no ad uno sviluppo apparente che dà lavoro, ma, magari, toglie la vita o la salute ai lavoratori.
·Il livello di produzione e di produttività e, allo stesso tempo, il livello dei consumi, molte volte superflui,è molto alto. Possiamo continuare a tenere questo tenore di vita ? Se il livello dei consumi si esportasse, come sarebbe giusto, nel resto del mondo e in particolare nel terzo e nel quarto mondo, a condizioni invariate di sistemi energetici e di produzione, ci sarebbe il rischio di distruggere le risorse dell’umanità in poco tempo. Salvo che non intervengano nuove scoperte scientifiche nel campo della produzione di energia.
Possiamo pensare ad uno sviluppo infinito ? O dobbiamo invece considerare che negli ultimi anni, i ritmi di crescita economica, di aumento del prodotto interno lordo, almeno in Italia, si sono assestati su valori ridottissimi, spesso vicini allo zero. Con tassi di crescita così modesti sarà veramente difficile, se non impossibile, raggiungere gli obiettivi di Lisbona per quanto riguarda gli indicatori dell’occupazione. Non riesco, infatti, a comprendere, come, negli ultimi tempi, a sentire le cifre ufficiali, sia potuta aumentare l’occupazione o, meglio, come sia potuta diminuire la disoccupazione a fronte di una crescita così ridotta.
Forse il fenomeno è dovuto al fatto che aumentano i contratti atipici o part time.
Si parla sempre di precarietà, ma la percentuale del lavoro a termine non è aumentata in maniera significativa negli ultimi anni e in Italia si attesta sul 13%, in linea con quanto avviene in Europa, e ben al di sotto del livello verificato in Spagna (si parla in questa terra del Ben Godi dove molti sardi vanno a lavorare, del 34% di lavoro a termine).
Ma allora ?
Propendo per l’ipotesi che l’occupazione esistente è stata divisa tra più persone: più che di distribuzione di ricchezza, si dovrebbe parlare di divisione della povertà. Non già ricchezza maggiore divisa tra più persone, ma bassi salari suddivisi tra più persone.
Dobbiamo puntare, come dice il prof. Rubbia, (ma la Cisl lo dice almeno dal tempo del protocollo di luglio 1993) sulla ricerca, sulla formazione, sul ruolo dell’università. Noi spingiamo i nostri giovani a studiare, a laurearsi,( e facciamo bene a far questo) ma dobbiamo creare le condizioni perché nasca il lavoro di qualità.
In merito alla qualità del lavoro, il nuovo sistema di rilevazione registra come occupati le persone che svolgono una qualsiasi attività lavorativa nella settimana di riferimento, anche se parziale o precaria. Le tabelle nulla ci dicono in merito alla durata del lavoro, alla sua retribuzione, all’attività lavorativa. Né siamo in grado di avere specificata la tipologia di contratti applicati ai lavoratori, o la rispondenza del lavoro svolto alla professionalità ed ai titoli di studio posseduti.
Secondo una ricerca della provincia di Cagliari, in occasione della predisposizione dei fabbisogni formativi, è emerso con drammaticità che è più facile trovare lavoro per persone senza titolo di studio piuttosto che per laureati.
Se questa ricerca è vera, c’è da preoccuparsi fortemente. In ogni caso, la fuga dei cervelli dalla Sardegna è una cosa certa. Il fatto è che, per una persona, un giovane, una donna (giacché mi pare che le donne raggiungono più e meglio degli uomini titoli elevati di studio) che ha speso parecchi anni della propria vita nello studio, invogliato dai genitori che affrontano grandissimi sacrifici, è spesso più frustrante rimanere disoccupato o non trovare un lavoro adeguato alla propria preparazione culturale, rispetto ad altre situazioni, pur altrettanto difficili.
Ma in attesa dello sviluppo, della crescita economica, del rilancio dell’industria, dei processi di formazione delle risorse umane, dobbiamo affrontare i problemi dei poveri, delle classi meno agiate, di coloro che sono privi di una formazione adeguata e che bussano alla porta della società, ma anche delle fasce di lavoratori scolarizzati che non trovano adeguate risposte nel mondo del lavoro.
Qui la strada è stretta tra un assistenzialismo pubblico, a volte necessario ma che non dà sbocchi e prospettive e che rischia di perpetuare sprechi e la strada invece di un efficientismo che, in certi casi, non si attaglia ad alcune fasce lavorative.
Dobbiamo dare un reddito a tutti (di cittadinanza ? collegato a forme di impiego in lavori socialmente utili ?) ma dobbiamo dare, possibilmente, un lavoro a tutti. E qui i problemi si accavallano, le soluzioni sono complesse, perché i salari degli italiani e dei sardi, ancor più, sono bassi e se si sceglie la strada di dare un sussidio senza controlli, come avvenuto in passato, si rischia che a molti convenga non lavorare.
Qui le politiche del lavoro si intrecciano con le politiche salariali, fiscali, contrattuali e le soluzioni si fanno più complicate.
Se prendiamo il fenomeno dei lavori socialmente utili avviato almeno ufficialmente alla conclusione ( e così potrò andare in pensione tranquillo), ne possiamo trarre delle conseguenze e degli insegnamenti per il futuro, perché il lavoro socialmente utile, uscito dalla porta attraverso vari processi di stabilizzazione, rischia di rientrare dalla finestra, attraverso iniziative tipo Sardegna fatti bella o altri processi di inserimento, di natura non propriamente industriale.
Incardinare lo svolgimento del lavoro in funzione della pubblica amministrazione per diverso tempo, come avvenuto, non può che portare alla nascita, legittima ben si intende, di aspettative per la stabilizzazione all’interno dei comuni, perpetuando una logica di bassa produttività in organizzazioni come quella degli enti locali che avrebbero invece bisogno di efficienza.
D’altronde, per alcune fasce di lavoratori e di lavoratrici non è neanche facile l’impiego presso aziende private, a causa della loro peculiarità personale e formativa o, per altri versi, dell’età avanzata.
Ma abbiamo l’obbligo di rispondere a queste esigenze. La prima domanda che si rivolge ad una persona che si incontra normalmente è: che lavoro fai ? Il lavoro è la porta per entrare a testa alta nella società. In più, la povertà che in Italia non è certo al livello del terzo mondo, è però un problema grave. Nel libro “Il banchiere dei Poveri” Yunus Muhamad – il creatore della Banca Grameen – dice che è vero che i poveri del terzo mondo sono molto più poveri di quelli del mondo occidentale (e anche italiano), ma probabilmente essi stanno peggio di quelli del terzo mondo. Perché si crea l’emulazione e l’invidia in un mondo opulento con grandi sprechi e con un modello consumistico che crea frustrazioni.
Ma allora quale può essere la ricetta, per una maggiore occupazione:
1) Impegnarsi per una maggiore distribuzione della ricchezza a favore dei lavoratori e dei pensionati, a prescindere dalla crescita economica, con conseguente aumento del valore dei salari e delle pensioni.
2) Costruire un sistema di ammortizzatori sociali funzionante e universale e subordinarne il godimento con l’utilizzo non in forme di lavoro socialmente utile (più o meno mascherato) presso le amministrazioni pubbliche, ma con l’impiego presso aziende private o piccole cooperative, con forti incentivi per le aziende e per i lavoratori. Tutto questo potrebbe evitare anche il fenomeno della concessione degli ammortizzatori sociali in deroga che sta diventando un ulteriore discrimine tra poveri.
3) Integrare il sistema dei servizi per l’impiego tra pubblico, oggi affetto da troppo burocratismo e non certo per colpa dei lavoratori pubblici, e privato, con una rete di agenzie per il lavoro e per l’orientamento, con in testa l’Università, che migliori il rapporto scuola università formazione e lavoro
4) Far sviluppare, anche attraverso l’emersione dal nero, tutti quei piccoli lavori autonomi (ambulanti, venditori al dettaglio, piccoli mestieri importanti soprattutto nelle città dove ormai si è persa la manualità dei piccoli lavori) facilitando forme di finanziamento agevolato da parte di istituti specializzati o di banche etiche.
5) Limitare l’assegno sciale o il reddito di cittadinanza ai casi per i quali non è possibile, realmente, altra soluzione.
Tutto ciò potrebbe costituire un contributo alla risoluzione del problema del lavoro che è poi la causa fondante dell’esistenza del sindacato.